La concezione della natura in Giappone

Aldo Tollini, Università “Ca’ Foscari” – Venezia –

“Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà” (San Bernardo di Chiaravalle)Vorrei affrontare il tema del rapporto con la natura, sapendo che non potrò svilupparlo esaurientemente, ma dovrò limitarmi a pochi cenni, perché è un tema di enorme portata.

1. La natura nella lingua giapponese

Ma partiamo dalla lingua che come sempre ci fornisce gli strumenti fondamentali per la comprensione della significato profondo che si nasconde dentro le parole.

Il termine giapponese (e cinese) per natura è shizen (o jinen) 自然 che vuol dire, leggendo i due caratteri che compongono la parola letteralmente “essere così come si è da se stessi” a significare che la natura si produce da se stessa (non da Dio come in Occidente) in un processo completamente autoctono, autoreferenziale ed endogeno. Nessuna forza esterna, né l’uomo né altre entità la producono e ne permettono lo sviluppo. In Cina ebbe particolare pregnanza nelle dottrine del Daoismo in cui venne a significare la positiva spontaneità delle cose cui l’uomo si dovrebbe uniformare.

Shizen ha iniziato a significare “natura” secondo la concezione occidentale solo dal XVIII secolo, e precisamente compare in un dizionario olandese – giapponese del 1796 per tradurre la parola olandese “natuur”. Prima di allora, la concezione di natura come si trova in Occidente era significativamente assente in Giappone. Al più si usava il termine tenchi 天地 “cielo e terra” o sansui 山水 “monti e fiumi”. Tuttavia esisteva la parola shizen già anticamente in Cina, ma significava “l’essere così come si è delle cose senza l’intervento dell’uomo” e non come oggi, “il complesso delle cose e degli esseri dell’universo in quanto si ritiene che abbiano in sé un principio costitutivo che ne stabilisce l’ordine e le leggi” (Garzanti). In Giappone la parola entrò con lo stesso significato che aveva in Cina, almeno fino alla fine del XVIII secolo, alle soglie dell’era moderna, come ho già detto.

2. Natura e religione

Il Cristianesimo, il Daoismo, poi il Buddhismo e anche lo Shintō hanno caratterizzato a Occidente e a Oriente le diverse visioni della natura. Qui, in Occidente la natura va dominata, ordinata per mezzo dell’intervento umano, là in Oriente si trova nell’ “essere così come è” della natura e dell’uomo, il riferimento fondamentale per la propria azione e il proprio senso dell’essere al mondo, fino a diventare nelle dottrine religiose la via che conduce al risveglio dello spirito.

In Giappone lo Shintō insegna che la natura è spirito: i kami (gli dei) sono le forze e le manifestazioni della natura, che vivono in stretto contatto con l’uomo. Il loro rispetto, e più ancora la capacità di entrare in armonia con essi e di ingraziarseli fa di essi alleati nella dura lotta per la sopravvivenza dell’uomo in un ambiente spesso ostile (la natura stessa).

Quando la natura colpisce l’uomo, in Occidente si pensa che l’uomo non ha saputo tenere sotto controllo la natura e impedire di farci del male. E’ come domare una tigre che un giorno si rivolta contro il suo domatore.

In Oriente, quando la natura colpisce è perché la natura ha in sé anche aspetti terrifici. Allora l’uomo deve sopportare e trovare il modo di rimettersi in armonia con essa e ingraziarsi i kami che si sono arrabbiati (o meglio, che abbiamo fatto arrabbiare). Mantenere l’armonia con la natura è la cosa fondamentale. Questa è la Via dei kami, lo Shintō.

L’aspetto che più colpisce dell’idea antica di kami è la percezione di una realtà imprevedibile e potenzialmente pericolosa: i kami (e quindi la natura) non sono “buoni”. Essi hanno in sé un aspetto violento, impetuoso e distruttivo. Come anche un aspetto pacifico e benefico. Pestilenze, tifoni, terremoti e disastri naturali possono essere causati da uno spirito arrabbiato e spesso vari culti venivano praticati per calmarlo. Per calmare il suo tatari 祟り. Dipende dall’uomo controllare e indirizzare a proprio favore l’energia degli spiriti con riti propiziatori, preghiere ed esorcismi.

Nello Shintoismo la natura è animata: monti, fiumi, alberi, non sono oggetti inerti, ma hanno una sorta di “anima”: i kami che vi risiedono. I kami sono entità soprannaturali misteriose e sfuggenti che si rivelano nella natura e nell’uomo. La loro energia, il loro potere di creare e di distruggere, pervade tutti gli aspetti dell’esistenza. I testi narrano degli “otto miliardi di kami”. Ci sono le divinità celesti, gli amatsukami che vivono nell’Alta Pianura del Cielo. Più umili, ma certo più radicati nella fede popolare sono i kunitsukami, gli dei della terra e della natura. Yamano kami è la dea delle montagne e dei boschi. Vive nello spazio selvatico.

Il Tanokami è il più importante e protegge le risaie. Associa la fertilità dei campi alla virilità. E’ un tramite tra natura coltivata e cultura è simbolo di unione, tanto fisica quanto sociale. Ed è portatore di ordine e prosperità del campo così come delle persone.

L’adozione della coltivazione del riso segnò un radicale cambiamento del rapporto tra l’uomo e la natura: da una posizione di incertezza, di passività e di dipendenza dell’uomo dai capricci della natura si passò a una visione positiva, attiva e di possibilità di controllo della natura, attraverso le tecniche di coltivazione.

Nello Shintō, in particolar modo fu elaborato l’ideale della purezza: la purezza fisica fu interpretata in chiave simbolica come indice di un percorso spirituale di rettitudine, cioè di purezza interiore. Il concetto di “purezza” nello Shintō non riguarda solo la purezza fisica, ma anche (e soprattutto) quella del cuore, perciò ci si deve porre davanti alla Natura per osservarla con il cuore puro.

La purezza rituale esprime una condizione fisica di integrità, che si carica di significati morali, e viene a rappresentare una condizione di makoto (sincerità). Di qui viene la preferenza per tutto ciò che è semplice, naturale, incontaminato.

L’uomo può cogliere la presenza dell’assoluto attraverso un processo emozionale e intuitivo, quando riesce a fare silenzio dentro di sé e si è lasciato assorbire dal fascino della natura. Forse per questo la letteratura di ispirazione scintoista si esprime attraverso la poesia.

Nella tradizione shintoista è la purezza che permette di entrare in contatto con il kami. Solo l’uomo ritualmente puro, che esegue il rito ogni qualvolta sia previsto, che rifugge dalle cose impure (kegare) ed è in armonia con se stesso, è anche in armonia con gli dei (e con la natura). L’impurità invece contamina il male a tutto il gruppo sociale. Gli dei come manifestazioni della natura sono come essa puri.

Il rapporto con i kami e con la natura passa attraverso il rito della purificazione, perché la natura è “pura” ab origine, è la dimensione dell’incontaminato. All’inverso è la dimensione dell’uomo, la società che è fonte di corruzione. L’azione dell’uomo è contaminata dal suo egoismo, è egocentrica, impura. Per questo, per ritrovare l’armonia con la natura ci si deve purificare, tornare puri e innocenti, perché la natura è la dimensione dell’innocenza, dell’essere così come si è in origine, la dimensione primeva dell’essere umano, cui dover continuamente tornare e da prendere a modello. La perfezione dell’universo (increato) è il modello da imitare e seguire e da riprodurre. Per questo la medicina, la filosofia, la religione, la trascendenza, prendono sempre a modello la natura, come nella teoria dei cinque elementi, e nei soggetti dell’arte. E’ l’ideale dell’azione umana nel Daoismo, è la fonte di ispirazione dell’organizzazione sociale nel Confucianesimo, è la sorgente da cui emana la dimensione della liberazione nel Buddhismo. La natura che circonda l’uomo è il modello per il suo essere interiore: la riproduzione del mondo “puro” della natura dentro di sé conduce al perfezionamento interiore. Non vi è un modello ispiratore esterno alla natura, un Dio che sta sopra la natura, ma piuttosto delle spiritualità (kami) dentro la natura che di essa sono l’espressione più genuina. L’unione con questa spiritualità della natura, la comunione, il sentirsene parte, è il ritorno al proprio vero sé, al sé originario e certo, che di là prende origine. Lì vi è la certezza della Via dell’uomo, quella Via che ci rende pienamente umani. In questa dimensione non vi è traccia di antropocentrismo, semmai di fusione e di ritorno dell’alveo materno. Natura in Oriente è madre, “mater et magistra”, guida certa, l’origine di tutto, compreso l’uomo. Là, l’uomo non ha trascendenza, non vi è Dio cui tendere al di sopra di tutto. La trascendenza conduce alla gerarchia verticale: l’Essere Supremo, sopra tutto, poi giù giù, una scala di valori. La concezione in Oriente è orizzontale, priva di gerarchia, comunitaria, una visione in cui l’individuo si scioglie nella comunità, i cui limiti sono indefiniti, dove gli elementi della natura sono il proprio sé.

Salta subito agli occhi la fondamentale differenza tra una natura creata da Dio secondo la tradizione Occidentale e “l’essere così com’è da se stessa, non creata” dell’Oriente. Nella cosmologia Occidentale troviamo al vertice Dio, poi al disotto, l’uomo, ma creato a sua immagine a somiglianza, poi al di sotto dell’uomo, il creato, cioè la natura, che nella scala verticale è l’ultima ed è soggetta all’uomo, è al servizio dell’uomo.

Nelle religioni monoteiste, il Dio che crea l’universo, e fa l’uomo con le proprie mani, conferisce a se stesso, all’uomo e alla natura delle posizioni gerarchiche ben precise. Sancisce l’idea di una diversità radicale fra Dio creatore e le sue creature. L’uomo riflette Dio, è a sua immagine e somiglianza, ma resta radicalmente diverso da Lui. Dio, la natura e l’uomo costituiscono i tre vertici nettamente separati di un triangolo ideale. L’uomo non diventerà mai dio né fiore: ciascuno ha un suo specifico destino.

Invece, nel pensiero giapponese, l’universo ha inizio per un atto di “generazione” (non di “creazione”). Sia l’uomo che la natura sono generati dall’unione sessuale di due dei uno maschio e uno femmina: Izanagi e Izanami. Vi è una sostanziale identità, una profonda comunione fra la realtà degli dei, la natura e l’uomo. L’uomo può diventare un kami e questi possono diventare albero, fiume, sassi, ecc. perché una medesima energia vitale li anima. I primi uomini furono generati dagli dei e quando muoiono possono ascendere al livello degli dei. Vi è una profonda identità tra l’assoluto degli dei e il relativo degli uomini e della natura. Fondamentalmente appartengono tutti allo stesso flusso di vita. Una pianta è un elemento della natura, e in quanto tale può essere anche la manifestazione di un kami, così come un uomo può diventare un kami (dopo morto) e nel Buddhismo può rinascere come pianta. Questa circolarità in cui i ruoli si intrecciano e si scambiano rende i rapporti tra kami, uomini e natura stretti e intimi.

Nell’antica credenza Shintō, la natura ha entità che hanno un’”anima”, una forza, dei poteri che possono riflettersi sull’uomo e interagire con lui. In Oriente la natura è organizzata in modo panteistico e l’uomo ne è parte integrante. Egli deve armonizzarsi con essa, viverci senza conflitti, con rispetto, con devozione perché la natura è animata da entità sovrumane; è una natura spiritualizzata, non solo nel senso che è popolata da spiriti, ma anche perché ogni elemento naturale ha uno “spirito” con il quale l’uomo si rapporta. Entrare in contatto, “sentire” un albero, un sasso, un fiume, ringraziarlo, rendergli omaggio, fa parte della religiosità ancestrale dei giapponesi. Già dall’antichità, questo popolo sentì la necessità di ingraziarsi, di armonizzarsi, di rendersi amiche le forze della natura. Non da una posizione di preminenza, di superiorità, ma come parte di essa, e soprattutto come uno dei tanti elementi che ne fanno ugualmente parte.

Nel Buddhismo

Nel Buddhismo, la realtà, la natura, sono la natura-di-Buddha, sono la dimensione dell’illuminazione. Vediamo come si esprime il grande maestro Zen Dōgen (1200-1253):

“Non abbiate avversione verso il camminare nell’acqua e camminare sulle rocce, soltanto, prendete in mano uno stelo d’erba e fatene un corpo dorato alto 6 , o prendete un granello di polvere e costruite un vecchio Buddha, uno stupa, un santuario.” (発無上心)

“Il corpo-mente della Via del Buddha è erba, alberi, tegole e pietre. Ed è vento, pioggia, acqua, fuoco. Usarli per farne la Via del Buddha, è insorgenza della mente (發心). Afferrando lo spazio vuoto vi si costruisca uno stupa, vi si costruisca un Buddha. Prendendo nelle mani l’acqua della valle se ne faccia un Buddha e uno stupa. Questo è l’insorgenza di anuttara samyaku sambodai (la suprema illuminazione).” (発無上心)

“Questi alberi e pietre sono pratica/illuminazione del hosshin (bodaishin)(發心修證), poiché sono: mente/alberi e mente/pietre. Con la forza (チカラ) di questi mente/alberi e mente/pietre, si realizza il pensiero del non pensiero di questo momento (而今ノ思量箇不思量底). “(発無上心)

Vedere la realtà per quella che veramente è, senza il filtro distortivo del nostro io è la Via buddhista. Per questo: shinjin datsuraku. Quando l’illusione del nostro io si sia disciolta, ecco che ci apparirà la dimensione dell’illuminazione.

“Tutti gli esseri senzienti, cioè tutto l’esistente sono la natura-di-Buddha” (Busshō)

Imparare dalla natura, accettarla e accettare noi stessi e le cose come sono.

Poesia

In primavera i fiori
In estate il cuculo
In autunno la luna.
In inverno la neve è luminosa
Ed è fredda.

La natura per Dōgen è semplicemente “così com’è” nel suo immenso fascino.

Un’altra poesia
I colori della montagna
L’eco delle valli…
Ognuno così com’è
È la voce e la forma
Del mio Shakyamuni Buddha

La natura, priva di un ego, scevra da egoismo, pura e incontaminata, espressione della genuinità originale è il luogo della manifestazione dell’illuminazione realizzata. Di lì noi esseri umani possiamo prendere ispirazione e farne un modello. Possiamo, dobbiamo ascoltare il suo LINGUAGGIO MUTO che continuamente ci parla e ci manifesta l’illuminazione.

3. Natura e arte

La bellezza in Occidente tende alla perfezione. Tende al sublime, a Dio, al mondo della perfezione divina, poiché l’arte è divina. Si pensi a una tela di Paolo Veronese per esempio.

In Giappone, dove gli dei (kami) sono nella natura, e sono imperfetti, anche l’arte non tende alla perfezione formale. La natura, potremmo dire, è “la perfezione dell’imperfetto”. Cioè la sua imperfezione formale ne fa una perfezione.

C’è una grande differenza tra una perfezione astratta e una perfezione concreta. La prima tende alla perfezione formale, la seconda alla bellezza dell’imperfezione.

Mentre il Dio cristiano è perfetto sotto ogni aspetto, i kami sono imperfetti: energie distruttive o benefiche, violente, pacifiche, che vanno controllate (il Dio cristiano non e’ controllabile…).

La Via della perfezione nell’arte in Giappone passa attraverso lo stretto sentiero dell’imperfezione (美は乱調にあり). Solo l’imperfezione può giungere alla vera perfezione, l’altra, quella perfetta, è fredda, statica, inutile. La perfezione viva è quella della natura, la riproduzione della natura, che è bella nella sua imperfezione: non si trovano in natura oggetti perfettamente geometrici. I giardini all’italiana solo il tentativo di formare una perfezione logica e razionale, quelli giapponesi di giungere a una perfezione imperfetta e rappresentano la natura così com’ è.

Si pensi ai giardini occidentali progettati con schemi logici e razionali, dove si trovano sentieri diritti, aiuole rotonde, quadrate e triangolari. L’effetto è di grande armonia e perfezione. Il giardino all’italiana, per esempio di tipo rinascimentale è di questo tipo e si comprende facilmente che è antropocentrico, ha l’uomo come soggetto, cioè riflette la mente umana (o possiamo dire che è antropomorfo?). I giardini giapponesi invece, sono costruiti secondo gli schemi della natura, la mano dell’uomo non si vede, e non deve vedersi.

Potremmo vedere la diversità tra i due tipi di giardini, dicendo che quello all’italiana ha un suo centro, una sua organizzazione centralizzata ben delineata e riconoscibile, mentre quello giapponese è diffuso e decentrato, senza cioè un punto focale determinato. Ma questo riflette esattamente la concezione sia della natura, sia della religione presso le due culture.

Del resto, non esiste difficoltà maggiore di quella di far apparire perfettamente naturale un’opera dell’uomo! Se non vi è una “coltivazione spirituale” l’uomo lascerà sempre delle tracce di sé nelle sue opere (per inevitabile orgoglio).

Il maestro Hisamatsu Shin’ichi riassume le caratteristiche dell’arte giapponese come segue:

1. Asimmetria
2. Semplicità
3. Austerità ed elevazione spirituale
4. Naturalità
5. Libertà dall’attaccamento
6. Quiete

Da parte sua, il famoso filosofo giapponese Nishida Kitarō dice che il Occidente l’arte cerca la forma, mentre in Giappone cerca sia la forma che il “senza forma”, cioè il vuoto. In Occidente l’opera d’arte è il pieno della forma, in Oriente è la forma contrapposta al “senza forma”, lo spazio pieno contrapposto allo spazio vuoto. La forma nasce dal senza forma, anzi di più, si concretizza solo in rapporto al senza forma. Il senza forma è la matrice, e permette il manifestarsi della forma. E’ dal senza forma che sorge la forma. La forma è ben visibile, mentre il senza forma è invisibile a occhio nudo. Ma questo senza forma si può percepire con altri sensi…. più sottili. Infatti, è bene che non tutto sia mostrato, che non tutto sia manifesto, e che una parte rimanga celata allo sguardo e che solo con lo sguardo interiore possa essere percepita.

Inoltre, mentre l’arte Occidentale sorge dall’uomo e dalla sua individualità, quella Orientale si forma in un percorso di continuo perfezionamento che trova la sua ispirazione al di fuori dell’uomo, nella natura. Imitando, riproducendo la natura e i suoi processi, raffinandoli, sublimandoli, sintetizzandoli, copiandoli, rendendoli essenziali e talvolta astratti e simbolici, l’artista trova la sua fonte di ispirazione. Una fonte certa, autorevole, indiscussa, sempre affidabile, che porta con sé non solo bellezza, ma anche profondità spirituale, perché nel pensiero dell’Oriente la natura non è solo armonia ma verità e fonte di perfezionamento spirituale.

Si nota spesso anche da parte di artisti e pensatori occidentali che nell’arte dell’Oriente e massimamente in quella giapponese, il modello è quasi sempre la natura, in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue forme. L’arte astratta non fa parte della tradizione artistica di questo paese, e effettivamente se pensiamo a una qualunque delle arti che si sono sviluppate colà, troviamo sempre al centro la natura. L’obiettivo degli artisti (per esempio i bonsaisti) è quello di riprodurre le forme della natura nella loro massima espressione di perfezione, senza mai stravolgerla. Ciò che l’artista produce è sempre nell’ambito delle forme presenti in natura, mai al di fuori di esse, per esempio rendendole astratte.

I piccoli suiseki, o bonsai ikebana che teniamo presso di noi non sono solo oggetti d’arte belli e piacevoli alla vista, ma sono lo spirito della natura, sono le rappresentazioni della nostra appartenenza originaria. Essi ci ricordano ogni momento che la natura è il nostro mould originario. Quando creiamo un bonsai o un ikebana, cioè quando modelliamo la natura, allo stesso tempo modelliamo noi stessi: quello che abbiamo tra le mani è una diversa sostanza di noi stessi, poiché noi siamo natura e la natura è noi stessi. Per questo, queste attività in Giappone giungono a essere delle Vie spirituali. In fondo, non è l’uomo, essere dominatore della natura che modella a suo piacimento, non è una azione in cui l’uomo esprime se stesso e dà la forma che la sua ideazione suggerisce. Non è questo. Piuttosto, la mano dell’uomo agisce come strumento della natura che dà forma ai suoi elementi. Come la natura plasma gli alberi, i fiumi, i monti, così la mano dell’uomo, natura essa stessa, dà forma di natura alla natura. Esprime la natura nella sua massima perfezione possibile. Se così non fosse, perché mai non dare agli alberi forme astratte, impossibili, ma creative? Perché non superare la natura nello sforzo creativo per dimostrare la superiorità della creatività umana su quella inferiore della natura? Forse un giorno l’arte del bonsai prenderà questa strada in Occidente… chissà!

Riprodurre la natura secondo i suoi propri schemi significa dare ordine all’universo e in definitiva alla vita dell’uomo e alla sua interiorità. Trovare nella natura la bellezza (o riprodurla) è un modo per cogliere (o esprimere) la sua perfezione e quella dell’universo e attraverso di essa congiungere l’uomo a questa perfezione della natura. E’ un modo per l’uomo di cogliere, riaffermare ed esprimere il suo “essere natura”, assieme alle piante, ai monti, ai fiumi. In definitiva, è un modo per “sentirsi natura” o tornare alla propria dimensione originale, alla propria natura profonda.

Ma se non abbandoniamo la nostra visione soggettiva, limitata, e non proviamo a osservare la Natura con uno sguardo puro e semplice non giungeremo mai a “vedere” la Natura, perché essa va vista con il cuore, oltre che con gli occhi.

Allo stesso modo, la bellezza del vero bonsai non nasce dalle mani del bonsaista, ma dal suo cuore. Bisogna sapere vedere e ascoltare la pianta per poter creare un bonsai. Solo quando si lasciano cadere tutte le idee preconcette su bellezza/bruttezza, armonia/disarmonia e con mente e cuore puro ci si avvicina alla pianta, si riesce a creare un bonsai valido.

Nel dare forma a un bonsai, piuttosto che creare una forma particolare che nasce dalla testa del bonsaista, si dà (o ridà) alla pianta la sua forma naturale, togliendo tutto quello che è superfluo. Potremmo dire che la bellezza del bonsai non sta nella sua forma esteriore, perché, se così fosse, allora qualunque forma armoniosa sarebbe bella (ma fredda, o improbabile, o artificiale). Piuttosto, la bellezza di un bonsai consiste nella sensazione o emozione che riesce a trasmettere, al di là della sua forma fisica.

Praticando l’arte del bonsai si sviluppa gradualmente un’attitudine di apprezzamento e amore verso la natura, ma anche di attenzione verso la natura, per esempio cogliendo le varie forme che assume nelle diverse stagioni.

Fujiwara Shoho (XVIII sec.): “Apprendere l’arte dell’Ikebana vuol dire imparare a conoscere se stessi.”

Nel bonsai (e nell’ikebana) è indispensabile togliere tutto quello che è superfluo, per lasciare solo ciò che è essenziale. Questa operazione fatta sulle piante serve a portarle alla loro natura autentica e genuina, oltre gli inutili orpelli. Ma la capacità di fare questo deve nascere dalla stessa operazione interiore del bonsaista. Non è pensabile che chi abbia confusione dentro di sé possa realizzare linee semplici e pure fuori.

Le bellezza della essenzialità e della purezza è la tradizione della cultura giapponese.

4. Natura e scienza

Infine, un’ultima considerazione. In Oriente, la natura non è stata oggetto di speculazione astratta, indagine scientifica, o proto-scientifica, come nella Grecia antica, né materiale inerte da sfruttare, ma è stata percepita come oggetto di esperienza pratica. Piuttosto l’oggetto della riflessione sulla natura sono stati i modi in cui l’uomo può armonizzarsi con essa, anche attraverso esperienze estetiche soggettive od oggettive.

Questo suggerisce che nell’ Oriente antico la natura non è mai stata percepita in modo astratto e separato dall’uomo. Infatti, per studiare la natura, si richiede un soggetto (l’uomo) e un oggetto (la natura), separate e sdoppiate. L’ indagine speculativa richiede che la natura sia resa oggetto astratto, separato. Solo allora si può misurare, sperimentare, cercarne le leggi che la governano, e oggettivandola le si dà un nome: “natura”.

Piuttosto, in Oriente, la “scienza” si è rivolta a cercate i modi di armonizzazione e compartecipazione poiché uomo e natura scaturiscono da una stessa fonte (non due fonti diverse come nel Cristianesimo) e fanno parte di una stessa realtà. Seguire la natura è seguire la via corretta; riprodurre le forme della natura è sentirsi partecipi con essa, spartirne lo spirito. Per questo riprodurre la perfezione (o la “imperfezione”) della natura è anche cercare la propria perfezione interiore. Dare alla pianta una forma perfetta è cercare la propria perfezione; la bellezza della pianta è la propria bellezza interiore.

自然の道理

5. Per finire…

Tami no Kurohito 民黒人(VIII sec.)

“Mi capita di allontanarmi dal mondo pieno di polvere e vado in cerca di alberi di alloro. Nella valle regna il silenzio. Percorrendo un sentiero non vedo altro che un piccolo taglialegna. Man mano che avanzo il paesaggio cambia, ma vento e foschia mi seguono ovunque. Se vuoi sapere dove trova il piacere un eremita sappi che la sua gioia sta nel vento incontaminato che soffia sotto i pini”.

Kado no Ō (葛野王(かどのおう)669-705

“Fatta preparare una carrozza, mi sono recato in mezzo alla natura (sansui). L’ho goduta tanto da dimenticare completamente le preoccupazioni che ha un dignitario di corte. Vorrei ad ogni costo apprendere la tecnica dell’eremita Ōkyō, dotato di poteri occulti e volare su una gru per giungere dove dimorano questi eremiti.”